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Torre Ranocchia |
Il complesso ubicato in Bitonto tra la via Nuova, via S. Francesco Saponieri, vico storto e via S. Pietro Nuovo, segnato in catasto al Fg 49/C p.lle 746 sub.1, confinante a Nord e Ovest con Vico Storto San Pietro Nuovo, ad Est con Via Saponiero, a Sud con Via Nuova, di proprietà del Comune di Bitonto; p.lle A D e 764 sub 2, confinanti a Nord con Vico Storto San Pietro Nuovo, a Est con Via Saponiero, a sud con la proprietà Comunale, di proprietà della Parrocchia di San Paolo Apostolo, così come evidenziato nella pianta, costituisce un esempio particolarmente importante di edilizia religiosa dei secoli XVII e XVIII. Esso venne eretto agli inizi del XVI secolo per iniziativa della nobile famiglia bizantina Giannone ed in particolare per volontà dell’abate Antonio, rettore e parroco della piccola chiesa di San Pietro Nuovo , con lo scopo di accogliere la prole femminile della famiglia destinata alla monacazione (Monache Benefattine Olivetane). Nel 1526 il Giannone ottenne dal vescovo Giacomo Orsini l’autorizzazione a procedere a proprie spese alla istituzione del nuovo monastero, il diritto di patronato e la facoltà di scegliere l’ordine religioso da insediare. La chiesetta di San Pietro Nuovo venne allora aggregata al Monastero e la sua parrocchia trasferita a quella di San Giorgio. Il 9 Maggio 1533 giunse l’assenso di Clemente VII. Il primo nucleo di monache, per le quali fu scelto quello delle Benedattine Olivetane, fu costituito da donne della famiglia Giannone, cui presto si aggiunsero quelle di altrove provenienza nobiliare. Esse abitarono le case contigue alla chiesa acquistate dai Giannonne e adattate alle necessità della vita monacale.Vennero presto intrapresi i lavori per l’ampliamento della chiesa a partire dal 1560 e furono conclusi nel 1580 soprattutto e per impulso della badessa Ippolita Sigala. Per quanto attiene il monastero, bisognò attendere gli anni intorno al 1720 perché vi fosse una completa revisione dell’assetto conventuale ad opera dell’architetto Vito Valentino, che progettò la distribuzione degli ambienti a livello di piano terra sia nella parte primitiva che nell’area di recente acquisizione (1721-27). Tale progetto venne ripreso e attuato dall’architetto solo nel 1837, nel periodo di sospensione della vita comunitaria(1807-1846) e in vista della sua riapertura. Nel 1866 il Monastero fu soppresso e i beni confiscati ma le monache riuscirono a riscattarli, assicurando la continuità della vita monastica. Nel 1879 il Monastero fu autorizzato ad aprire una scuola convitto per le classi elementari. Nel 1918 il Complesso, requisito dalle autorità militari, venne abbandonato dalle monache. Nel 1921 il Fondo per il Culto lo cedeva al Comune per destinarlo ad usi di pubblica utilità ed in parte all’Autorità Ecclesiastica in favore della quale rimanevano la chiesa ed alcuni locali per la sagrestia e la casa canonica. Il complesso, che occupa un intero isolato dotato di due chiostri, uno del Cinquecento, che ha subito manomissioni agli inizi del Novecento, e l’altro, di pianta quadrilatera, risalente al XVIII secolo. La complessa configurazione volumetrica scaturisce da un nucleo originario del XVI secolo, dall’ampliamento attuato nel ‘700 e da un rifacimento della facciata del XIX secolo. La facciata est, su via Saponieri, disegnata dal Lerario, conserva la sua originaria configurazione improntata ad un’estrema linearità, articolandosi su due ordini: l’ordine inferiore presenta un portale e finestre a lunetta, mentre quello superiore presenta finestre sagomate. La cortina muraria in conci di pietra liscia è interrotta a una cornice marcapiano. Il cornicione di coronamento è di forte aggetto. La chiesa, ha il prospetto cuspidato realizzato con filari di conci in pietra, interrotto dal portale centrale con timpano spezzato nel quale è ospitata la statua lapidea raffigurante San Pietro. In asse al portale è un finestrone a luce rettangolare anch’esso con timpano spezzato, a sua volta sovrastato da un piccolo rosone. L’interno, di pianta rettangolare presenta pareti d’ambito scandite in doppio ordine di lesene. Il soffitto ligneo cassettonato è occupato al centro da un dipinto raffigurante Santi Bnedettini, opera di Nicola Gliri mentre a Carlo Rosa spettano le otto tele delle pareti laterali con episodi biblici. Degno di Nota è il pavimento a raggiole del napoletano Vincenzo Pannone e l’altare maggiore eseguito nel 1742 dal marmoraro napoletano Nicola Lamberti.
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L’accesso al primo piano, grazie ad una scalinata in muratura, era difeso da feritoie laterali e da una sovrastante caditoia, di cui restano soltanto le grigie mensole di sostegno. Al primo piano, i vari locali sono dotati di sedili in muratura, in corrispondenza delle caratteristiche finestre con stipiti in pietra. Su questo piano, inoltre, si trovano diversi caminetti, tra cui uno adibito a cucina, dotato di dispense e forno in muratura per la cottura delle vivande. Esternamente, adiacente la struttura, è presente un caratteristico pozzo, coperto dalla tipica chianca con foro circolare, mentre sullo spigolo del prospetto posteriore si evidenziano due possenti contrafforti (murature di contenimento) ed un abbeveratoio per animali. L’origine della masseria torre è incerta.
Probabilmente è opera di Mastro Matteo Lombardo di Verano. Nel 1515 Giovanni Lombardo di Francesco, soprannominato il ranocchio per l’aspetto singolare, fu a capo della rivolta bitontina contro i feudatari di Spagna. Nel catasto Asburgico del 1728 la torre risulta di proprietà della famigliaRanucchio con la variante locale di Nanocchio. |
Torre del Lupomino |
Torre Morea |
Vetusta struttura abitativa e produttiva, situata in contrada “Lago di Chitro”, è databile presumibilmente agli inizi del XVII secolo. Presumibilmente circondata, un tempo, da un esteso vigneto non più esistente, presenta un paramento murario costituito dai classici conci sbozzati a martelletto e posti in opera a corsi regolari. La torre, caratterizzata da un grande ambiente voltato a botte di pianta quadrangolare, dotato di varie nicchie ed un focolare con cappa in muratura, presenta sulla facciata principale un piccolo ingresso incorniciato da stipiti in pietra, mentre sul retro una piccola finestrella a “feritoia” garantisce una sufficiente illuminazione interna. Questo ambiente svolgeva una duplice funzione: alloggio notturno per il custode e deposito di attrezzi agricoli o “cellarium”, ambiente dove venivano conservate botti vinarie di diversa capacità. Addossato al fabbricato vi residua un grande palmento nel quale anticamente vi erano gli ordigni per macinare l’uva, tra cui il caratteristico “torchio”. Riguardo al topos “Lupomino”, vecchie leggende popolari indicano la torre come rifugio notturno di un temuto licantropo (uomo-lupo o lupo mannaro). Più verosimilmente il toponimo “Lupomino” potrebbe derivare da “Lupis”, antica famiglia nobile probabilmente in origine proprietaria della torre, presente a Bitonto già dal XVI secolo.
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Antica masseria fortificata situata sulla via vecchia di Altamura, a sud del centro storico di Bitonto, risale presumibilmente al XVI secolo. Difesa dalla torre e dalle alte mura perimetrali, presentava frontalmente particolari merlature a cuspide, successivamente tompagnate per l’innalzamento delle mura di cinta. Un bel portale ad arco sormontato da una piccola nicchia quadrangolare un tempo affrescata, abbellisce l’antica costruzione. Successivamente detta nicchia fu dotata di una tavoletta votiva raffigurante la Virgo Stella Maris collocata su una lapide a tre registi datata al 1665 in memoria di Angelo Antonio Morea, oggi non più presente. Del vetusto complesso produttivo vi residuano soltanto una tozza torre quadrangolare a due piani, dotata al piano terra di uno stretto ingresso e di una semplice finestrella al piano superiore. Torre Morea, schierata nel complesso delle torri “vedette”, unitamente a Torre Pingiello e Torre Lupomino, durante le incursioni piratesche allertava gli abitanti del contado mediante segnali di fumo, fuoco e spari di archibugio.
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